Balle di Fieno – Giugno

Giugno 2021 – Balle di Fieno e Orto

25 Giugno 2021

Farmlife – June – Balle di Fieno

Le balle di fieno

Le balle di fieno, composte da erba essiccata, vengono raccolte e immagazzinata ai fini di alimentare animali da allevamento, in particolare bovini, equini, caprini e ovini.

Anche piccoli animali domestici come conigli e piccoli roditori possono mangiare fieno.
Soprattutto per i conigli l’alimentazione corretta è a base di fieno, senza cereali, pane, pellets o quant’altro.
Il fieno per i conigli rappresenta l’alimento principe, importante anche per mantenere una corretta masticazione, consumando i denti ed evitando problemi di malocclusione.
Sconsigliato invece per i suini, che non digeriscono bene le fibre vegetali della pianta.

Il fieno viene usato come alimento anche quando non ci sono abbastanza pascoli a disposizione, a causa delle condizioni climatiche avverse, come in inverno oppure dove sono carenti i pascoli disponibili come nelle zone a coltivazione agricoltura intensiva.

Il fieno viene tagliato e raccolto più volte nel corso dell’anno.
A seconda del periodo in cui avviene questa operazione, prende nomi diversi:

  • fieno di primo taglio, meno pregiato
  • fieno di secondo taglio, quello più pregiato
  • fieno di terzo taglio è invece quello con qualità nutritive inferiori.
Stirpe di Terra _ Rinaldi Graziano


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Camminata con “Asparagi”

#camminate #asparago #colture

L’Asparago di Altedo IGP

STORIA

L’asparago della pianura bolognese ha una lontana e consolidata tradizione. I documenti storici comprovanti l’origine, la commercializzazione e l’impiego culinario di questo prodotto risalgono al XIII secolo. Tuttavia, è solo ai primi anni del XX secolo che si fa risalire la produzione dell’asparago, quando alcuni agricoltori altedesi, di ritorno da un viaggio a Nantes, in Francia, ne iniziarono la coltivazione sulla base delle nozioni tecniche acquisite. Da allora iniziò la coltivazione intensiva degli asparagi, che dopo la Seconda guerra mondiale divenne tra le più praticate e diffuse nella zona.

Fonte

Camminata con “Asparagi”
La terra è bassa

Quando raccogliere asparagi da orto

Sempre in primavera. Gli asparagi vengono raccolti scavando fino a 25 cm nel suolo. La raccolta degli asparagi, nella maggior parte delle aziende viene eseguita manualmente, usando un punteggio (un attrezzo che taglia l’asparago alla base).

Dopo aver raccolto un asparago è opportuno riempire il buco lasciato e levigare la superficie del suolo così da riconoscere più facilmente altri germogli che spuntano, pronti per il raccolto.

Gratitudine
#farmlife

Dove si produce Asparago di Altedo IGP

Asparago Coltura

Asparago Verde di Altedo IGP

Ricette

DESCRIZIONE

L’Asparago Verde di Altedo IGP è un ortaggio allo stato fresco della specie Asparagus officinalis L. ottenuto dalle cultivar Precoce d’Argenteuil, Eros, Marte e Ringo; altre cultivar possono essere presenti negli impianti in una percentuale non superiore al 20%.


Passata (Salsa) di Pomodoro, Stirpe di Terra

Passata (salsa) di pomodoro, Orto di casa

Pomodori bolliti, produzione dell’Orto, secondo giro
Passata di pomodoro, Paiolo in Rame

Pace di Primavera

La natura ringrazia. Ne pianterò uno io per commemorarlo e rievocare il vostro sentire.
Simona

 

Pace di Primavera.

O gloriosa pace,
della terra, nel sole;
pace di primavera,
sacro silenzio pieno

di palpitanti foglie,
tentato ad ora a ora
da un trillo alto, vivace
d’augel che si allontana;
non sei tu forse arcana
della terra preghiera?

Non son forse parole
gl’inesplicati odori
dei felici tuoi fiori?
Raggiante in bel sereno
il cielo ampio le accoglie;

certo la terra adora,
sente la terra amore;
il palpito immortale
io sento del suo cuore.

L.Pirandello da L’Aquilone “Antologia Italiana per la Scuola Media” Società Editrice Internazionale 1959

TRACCE e SENTIERI

E’ sempre stato così: quando l’aria ancora profuma di calicanto e i primi temerari narcisi sbirciano dalla bordura il risveglio dell’incipiente paesaggio primaverile, lui è là, con le braccia protese verso il lago già addolcite dal bianco-rosa dei delicati fiori.

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Era.

Non farò mai abbattere quest’albero finché non sarà totalmente morto”, è stato per anni il commento di Paolo di fronte agli inevitabili tagli compiuti dal giardiniere durante la potatura invernale.

Addolorati, di anno in anno assistevamo alle amputazioni necessarie per consentire al grande albero di non affaticarsi ulteriormente nel suo lento processo di decadimento.

Cicatrizzante, concimazioni, lozioni ecologiche per riparare le ferite delle malattie … lui gradiva le cure e attraversava ancora una volta la stagione, esortando i sempre più fragili nuovi rametti a vivere gioiosamente l’avventura del tempo che resta.

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Tra i cinquanta e i sessant’anni l’età stimata. Quando siamo arrivati noi, lui era già là…

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Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia D.O.P

Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia

Riconoscimento DOP: Reg. CE n. 813/2000.

Zona di produzione: provincia di Reggio Emilia.

L’anno 1046 è la prima data ufficiale, della quale si abbia conoscenza, che ci porta a conoscenza dell’Aceto Balsamico.

Descrizione del prodotto: colore bruno scuro, limpido, lucente; densità apprezzabile e di scorrevole sciropposità; profumo penetrante e persistente, fragrante con gradevole acidità e bouquet caratteristico anche in relazione ai legni utilizzati; sapore dolce ed agro ben amalgamato di apprezzabile acidità ed aromaticità in armonia con i caratteri olfattivi; acidità totale non inferiore a 5 gradi (espressa in grammi di acido acetico per 100 grammi di prodotto); densità a 20 gradi centigradi (non inferiore a 1,200 gr litro). 

Conservazione: Dato il prolungato invecchiamento nelle acetaie e le caratteristiche intrinseche che ne derivano, il prodotto non è soggetto a rischi di alterazione durante la conservazione. L’aceto balsamico va conservato in recipiente di vetro, avendo semplicemente cura di chiudere bene il contenitore e conservarlo lontano da sostanze che emanino profumi particolari o sentori pronunciati.

Metodo di produzione: Ottenuto dalle uve di Lambrusco, Ancellotta, Trebbiano, Sauvignon, Sgavetta, Berzemino e Occhio di Gatta.
L’Aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia si ottiene tramite fermentazione zuccherina e acetica di mosto cotto. Il segreto della sua eccellenza sta nell’invecchiamento, che si protrae per almeno 12 anni in botti di dimensioni differenti (minimo tre) e di diversi legni (rovere, castagno, gelso, ciliegio, frassino e ginepro), ognuno dei quali regala un particolare aroma all’aceto e lo rende unico. Le tre fasi della produzione dell’aceto sono la fermentazione alcolica, l’ossidazione acetica e l’invecchiamento. La fase più complessa e delicata, che celebra l’esperienza del maestro acetaio, è il processo di affinamento del bouquet, che diviene sempre più intenso, delicato e gradevole al naso e al gusto. Le operazioni di elaborazione, di invecchiamento obbligatorio e di imbottigliamento del prodotto devono avvenire nel territorio della provincia di Reggio Emilia.

Consumo: L’aceto balsamico tradizionale è un condimento d’eccezione, che per la sua duttilità può adattarsi ai più svariati utilizzi, sempre più legati alla gastronomia di qualità e all’arricchimento di piatti di altissimo pregio: per esaltare i sapori delle pietanze ne bastano poche gocce, aggiunte a crudo per non disperderne il bouquet. Può essere impiegato su insalate, sul pinzimonio, su scaglie di Parmigiano Reggiano, sul prosciutto crudo e addirittura sulla frutta. Si sposa perfettamente con tutte le carni rosse, la selvaggina, il pollame, ma anche con insalate di mare e con il pesce lesso. Arricchisce il sapore di maionesi, salse, mantecati, intingoli.

Cenni storici: L’Aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia è unito al suo territorio da una storia millenaria che parla del prodotto come di un tesoro, custodito segretamente fino a pochi anni fa, e ora invece diventato reperibile in commercio. 
Le testimonianze della sua esistenza risalgono agli inizi dello scorso millennio: si narra che nel castello di Canossa venisse prodotto un aceto, elisir e balsamo, che era molto apprezzato dalle teste coronate. Documenti storici dei secoli XII, XIII e XIV, invece, registrano la presenza di vere e proprie consorterie di fabbricanti di aceto, i cui affiliati dovevano tenere gelosamente custodito il segreto della pregiata produzione. Tutta la dinastia estense che governò il ducato di Modena, Reggio e Massa fino all’Unità d’Italia arricchì le cronache di memorie sull’Aceto balsamico tradizionale, ma le testimonianze si infittiscono nell’Ottocento, quando era buona norma accrescere la dote della nobildonna che si maritava con vaselli di aceto balsamico pregiato e batterie di botticelle dal contenuto prezioso.


Fonte: Disciplinare di Produzione della DOP “Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia

Museo del balsamico tradizionale: sito Internet: www.museodelbalsamicotradizionale.org

Aceto Balsamico Tradizionale di Modena D.O.P


Aceto Balsamico tradizionale di Modena





Riconoscimento DOP: Reg. CE n. 813/2000.
Zona di produzione: provincia di Modena, nella zona compresa tra la valle del fiume Secchia fino alla sinistra del fiume Reno.



Descrizione del prodotto: colore bruno scuro, carico e lucente; densità apprezzabile in una corretta, scorrevole sciropposità; “bouquet” caratteristico, fragrante, complesso ma bene amalgamato, penetrante e persistente, di evidente ma gradevole e armonica acidità; sapore caratteristico, così come attraverso i secoli è stato consacrato dalla tradizione in immutabile continuità, dolce e agro e ben equilibrato con apprezzabile acidità con lieve tangente di aromaticità ottenuta per l’influenza dei vari legni usati dei vaselli di acetaia, vivo, franco, pieno, vellutato, intenso e persistente, in buona sintonia con i caratteri olfattivi che gli sono propri; acidità totale non inferiore a 4,5 gradi ( espressa in grammi di acido acetico per 100 grammi di prodotto); densità a 20 gradi centigradi (non inferiore a 1,240). 

Conservazione: Dato il prolungato invecchiamento nelle acetaie e le caratteristiche intrinseche che ne derivano, il prodotto non è soggetto a rischi di alterazione durante la conservazione. L’Aceto balsamico tradizionale di Modena va conservato in recipiente di vetro, avendo semplicemente cura di chiudere bene il contenitore e conservarlo lontano da sostanze che emanino profumi particolari o sentori pronunciati.

Metodo di produzione: Ottenuto dalle uve di Lambrusco, Ancellotta, Trebbiano, Sauvignon, Sgavetta, Berzemino e Occhio di Gatta.
L’Aceto balsamico tradizionale di Modena è ottenuto da uve tipiche della zona di origine, il cui mosto, cotto a fuoco diretto e a vaso aperto, viene posto in botti di legno pregiato dove acetifica naturalmente. A seguito di successivi travasi in botti di dimensioni sempre minori, e dopo molti anni di maturazione e invecchiamento, acquista le caratteristiche organolettiche tipiche. A questo punto interviene la valutazione degli esperti degustatori a sancire il raggiungimento del miracoloso equilibrio che solo l’alchimia del tempo e la mano esperta dell’uomo sanno concedere a questo prodotto.

Consumo: Il balsamico è duttile, ma a non saperlo impiegare correttamente si corre il rischio di sprecarlo: si tratta di trovare il giusto equilibrio tra la quantità utilizzata e il risultato che si vuole ottenere. Si consiglia di assaggiarlo sulla punta di un cucchiaio prima dell’impiego, per percepirne, volta per volta, la rotondità oppure l’intensa acidità. 
L’Aceto balsamico tradizionale di Modena può essere gustato su tutte le verdure, fresche e lessate, sui bolliti, per preparare salse e per rifinire preparazioni di carne e pesce, sul Parmigiano Reggiano, sulla frutta (ideale sulle fragole) e sul gelato.

 L’Aceto balsamico tradizionale di Modena costituisce una realtà unica al mondo nel panorama dei condimenti. A differenza dell’aceto, che proviene da un liquido alcolico, l’aceto balsamico tradizionale è ottenuto da un mosto cotto di uve tipiche della zona di origine, bianche e zuccherine. 
La tradizione gastronomica modenese arricchisce molti dei suoi piatti con il particolare sapore di questo condimento, la cui origine risale al tempo dei Romani, che utilizzavano il mosto cotto concentrato (sapa) per condire le loro pietanze.

Fonte: Disciplinare di Produzione della DOP “Aceto Balsamico Tradizionale di Modena

ORIGINI E CENNI STORICI SULL’ACETO BALSAMICO DI MODENA


Aceto Balsamico significa da tempo immemorabile cultura e storia di Modena. Infatti la sua esistenza é dovuta alle particolari caratteristiche pedoclimatiche del territorio alle quali si sono aggiunte i saperi, le conoscenze e le competenze del fattore umano che in una mirabile sintesi hanno dato vita a un prodotto esclusivo e distintivo dei territori delle attuali province di Modena e Reggio Emilia (cioè dell’antico Ducato Estense).

A Modena sono sempre esistiti diversi tipi di aceto ottenuti col mosto di uva, in relazione allo sviluppo nella storia di diverse ricette, di diversi metodi di preparazione e di invecchiamento.
L’origine di questi prodotti risale alla tradizione degli antichi Romani.
Il termine Balsamico è relativamente giovane, usato per la prima volta nei registri degli inventari ducali della Reggia Estense di Modena nel 1747(1) e probabilmente il nome stesso nasceva dall’uso terapeutico che allora se ne faceva (2)….

(1) 
Registro delle vendemmie e vendite dei vini, per conto delle cantine segrete per l’anno 1747’, Archivio di Stato.

(2) 
Gioacchino Rossini in una lettera all’amico Angelo Castellani: ‘…alquanto poco aceto modenese, dalla sperimentata efficacia rinfrescante e balsamica, riuscì in breve lasso di tempo a ridare un po’ di salute e tranquillità…’

Ulteriori cenni storici:

Birra Peroni

Carosello Birra Peroni – Chiamami Peroni sarò la tua Birra

Birra Peroni: la storia


Il Gruppo Peroni, 160 anni e più di storia, in mano straniera dal 2003 (è nella scuderia della sudafricana SAB Miller) è, come si usa dire oggi con termini “moderni”, uno dei player principali nel settore dell’industria birraria italiana: 750 dipendenti, tre stabilimenti produttivi (Roma, Padova e Bari), la malteria Saplo, una produzione annua di birra che ammonta a 3,250 milioni di ettolitri (fonte Assobirra, dati riferiti al 2010).


Solvi Stubing (nella pubblicità a lato), Anita Ekberg, Fred Buscaglione, Mina e Ugo Tognazzi, Renzo Arbore, Milly Carlucci, Filippa Lagerback,Adriana Sklenarikova, Camilla Vest; per non parlare del ciociaretto firmato da Romolo Tessari nel 1910, sono soltanto alcuni dei rinomati testimonial pubblicitari di una birra e un birrificio che hanno fatto la storia. 

Una storia che attraversa trasversalmente le vicende dell’Italia fin dal 1846, anno della sua apertura, quando Giovanni Peroni trasferisce la propria attività a Vigevano, dove comincia a lavorare come bottigliere (la famiglia di origine era invece di pastai). Ben presto vi apre una piccola attività di produzione di birra, che poi veniva venduta in un locale che lo stesso Peroni aprì accanto alla fabbrica, un vero e proprio brewpub ante-litteram (la stessa cosa farà poi anche a Roma, quando vi si trasferirà).

Le cose funzionavano, ma Peroni intuisce che la propria attività avrebbe riscosso un maggior successo in un posto diverso, visto il ristretto mercato vigevanese. Il consumo di birra nel centro sud dell’Italia era in quel periodo molto più diffuso che al nord, e quindi Giovanni decide di fare il grande salto e trasferisce la propria attività a Roma, prima vicino a Piazza di Spagna (1864), poi nel Borgo santo Spirito (1872, con la mescita che si effettuava nella elegante zona di via dei Due Macelli) e, infine, in zona Colosseo (1890), dove, accanto alla fabbrica, apre un “pub” con 19 tavoli. E’ il momento della “stabilità” delle scelte: la famiglia Peroni sceglie definitivamente Roma, e Roma sceglie la birra Peroni, che comincia a mietere riconoscimenti: si può fregiare dello stemma reale in quanto fornitrice ufficiale della Casa Reale e arriva, nel 1886, la menzione onorevole alla Esposizione nazionale dei prodotti nazionali.

La grande svolta produttiva si ha nel 1905, quando i fratelli Peroni portarono in Italia, dopo averla studiata in Germania, la bassa fermentazione: convinti che il proprio futuro birrario avrebbe dovuto puntare su quel tipo di produzione, in quell’anno i Peroni fecero la fusione con la più grande fabbrica di ghiaccio di Roma. La nuova associazione si chiamò Le Società Riunite Fabbrica di Ghiaccio e Ditta F. Peroni, la cui nuova sede si trovava nei pressi di Porta Pia: 300 operai e una squadra di “carri giro” trainati da cavalli che portava la birra in tutta Roma. Come per tutte le attività economiche europee “storiche”, il periodo fra le due guerre è stato quello più complicato, e la Peroni, in questo, non fa eccezione. Ma dalle difficoltà la Peroni cerca di risollevarsi in vari modi: fantasia produttiva (nasce in quegli anni il Peroncino, a lato la prima bottiglia), grandi investimenti pubblicitari che lasciano il segno sull’immaginario collettivo Il ciociaretto ricordato in precedenza), tecnologizzazione degli impianti, acquisizione di fasce di mercato attraverso l’acquisto di birrifici “minori” e/o locali. Dal 1926 al 1938 Peroni, infatti, acquisisce e ingloba la fabbrica Birra Perugia, le Birrerie Meridionali di Napoli (che dal 1930 si chiameranno Birra Peroni Meridionale), Birra d’Abruzzo di Castel di Sangro, la Birra Partenope (che Peroni acquista ad un’asta fallimentare) e la Birra Livorno.

Finita la Seconda Guerra, riassestati i danni che l’apparato produttivo aveva subito, una vasta riorganizzazione della filiera distributiva risolleva le sorti della Peroni, ristrutturazione elaborata da Franco Peroni, dopo un suo viaggio negli States, dove capì l’importanza della razionalizzazione logistica e della organizzazione delle unità produttive. Lo stesso Franco Peroni scommette su una pronta ripresa dell’Italia e fa costruire a Napoli il birrificio più moderno dell’epoca, inaugurato nel 1953, al quale seguono altri tre stabilimenti: Bari (1963), Roma (1971) e Padova (1973). Prosegue anche la politica delle acquisizioni: alla fine degli anni ‘50 è la volta della Dormisch di Udine e della Faramia di Savigliano, nel 1960/61 tocca alla Pilsen di Padova e alla Raffo di Taranto, nel 1970 tocca alla Itala Pilsen del Gruppo Lucani. La politica delle acquisizioni terminerà nel 1983, con l’acquisizione della Whurer di Brescia (allora controllata dalla Gervais Danone).




Nel 1963 nasce il marchio Nastro Azzurro legato per sempre nell’immaginario collettivo allo slogan ”chiamami Peroni sarò la tua birra” con il quale verrà promozionata e alla figura della bionda Solvi Stubing, sua “madrina” pubblicitaria. E’ la birra che fa conoscere il Gruppo Peroni all’estero, dove ancora oggi è la birra italiana più venduta. E gli anni ‘70-’80 sono gli anni della espansione del birrificio italiano sui mercati esteri, attraverso la diversificazione dei propri prodotti e l’avvio di collaborazioni con aziende internazionali. Dal 1983 si comincia ad esportare in America, e contemporaneamente si procede ad una ulteriore razionalizzazione degli impianti e della filiera produttiva. Nel 1984 chiude il deposito (ex stabilimento) di Livorno, e la fabbrica di Savigliano (ex Faramia). Nel 1985 chiude lo stabilimento di Taranto e nel 1988 quello di Udine, nel 1989 alla quello della Wuhrer di Brescia e nel 1993 quello di S. Cipriano Po (ex birra L.E.O.N.E.). La produzione è così concentrata sugli stabilimenti di: Roma Napoli, Bari e Padova (ex Itala Pilsen).

E arriva,infine, il tempo delle multinazionali nel campo della produzione birraria, anche e soprattutto in Italia; dopo aver tentato di “limitare i danni” con un accordo commerciale/produttivo con la Heineken che aveva cominciato a mettere gli occhi sul Gruppo Peroni (detentore, negli anni ’80 del 40% del mercato birrario italiano), quella stessa Heineken che nel 1998 acquisirà la Birra Moretti, anche la famiglia Peroni è infine costretta a capitolare. Nel 2003 Isabella Peroni, figlia di Giacomo e ultima proprietaria della azienda vende la maggioranza delle azioni alla multinazionale sudafricana SABMiller. E’ la fine di una storia tutta italiana di fare birra, ma non la fine di un modo italiano di fare birra, industriale ma con un occhio attento alla qualità. Il “garante” di ciò è Ezio Messina, direttore del laboratorio centrale della Peroni a Roma, che controlla l’intera filiera produttiva delle materie prime, fra le quali il Nostrano Peroni, un tipo di mais autoctono (racconta la Guida alle Birre d’Italia edito da Slowfood), non ogm, selezionato in collaborazione con L’Istituto Cerearicolo e il Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione Agricola di Bergamo e coltivato in cinque regioni italiane da un network di aziende agricole.

di Alberto Laschi

Viaggio nella valle del Po

Alla ricerca dei cibi genuini


La civiltà di un popolo
Il cineturismo è un modo oggi di tendenza per rivivere scene di grandi capolavori del cinema e il territorio ferrarese, forgiato con il lavoro duro e ostinato delle sue genti, si è ben prestato nel cinema italiano d’autore all’ambientazione di storie spesso drammatiche, di esistenze tormentante, di intense passioni.
La città, il Po, le valli e il delta hanno sempre esercitato un fascino particolare su grandi registi ferraresi, come Michelangelo Antonioni, Florestano Vancini o Folco Quilici, e non solo.
Intervista realizzata nel corso del Viaggio sul Po (a.a. 2007-08) degli studenti dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo

Lo Sciacchetrà


Oggi pensieri di forza e coraggio vanno alle Cinque Terre e alle zone colpite dalla natura avversa e dall’incuria. Per chi promuove la cultura del cibo attraverso il territorio e il lavoro dei produttori, e per chiunque partecipa a preservare l’identità di un luogo, è importante dare un segno, partecipare attraverso la condivisione dei valori di un luogo e delle sue identità e delle sue genti.





Lo Sciacchetrà è uno dei vini passiti più celebri di tutto il patrimonio vitivinicolo italiano.


Prodotto nella zona delle Cinque Terre, splendido approdo turistico della provincia di La Spezia , lo Sciacchetrà si ottiene dalle uve dei vitigni di Riomaggiore, Monterosso, Coniglia, Manarola e Vernazza.


Lo Sciacchetrà è un vino raro, che si produce in piccole quantità. Identificato dallaDenominazione di Origine Controllata Cinque Terre, lo Sciacchetrà ha ottenuto anche il riconoscimento speciale del Presidio Slow Food, progetto per il recupero e la salvaguardia delle produzioni di eccellenza.
La composizione dello Sciacchetrà è costituita da uva Bosco, Albarola e Vermentin.
I vitigni sono quelli coltivati nei famosi terrazzamenti delle Cinque Terre, situati a ridosso della costa e soggetti alla salubre aria salsoiodica marina.
L’ uva viene lasciata appassire sino a Novembre inoltrato su apposite graticce che si trovano al riparo dall’ esposizione diretta al sole.
Al momento della vendemmia, l’ uva presenta un’ elevata concentrazione di zuccherina e il colore dei grappoli ricorda le sfumature dell’ oro.
Lo Sciacchetrà si accompagna perfettamente ai dolci tipici della zona oltre che ad alcune specialità regionali sia italiane che francesi: il pandolce genovese basso, il panforte di Siena, il torcolo di Perugia e il pan di spezie tipico di Reims.
Caratterizzato da note olfattive fruttate e speziate che ricordano la mela, l’ albicocca, l’ anice, lo Sciacchetrà sembra avere il dono di sprigionare le stesse note salsoiodiche che gli regala il mare. Il colore dello Sciacchetrà acquista intensità nel processo di invecchiamento: giallo paglierino dorato lo Sciacchetrà più giovane, ambrato con note di oro intenso lo Sciacchetrà più maturo.
Caratterizzato da una gradazione alcolica minima del 17%, lo Sciacchetrà si presenta al massimo delle sue qualità se servito ad una temperatura di 14°.
Un vino dolce, dunque, ma non troppo. Un vino secco e al contempo vellutato, capace di migliorare nel tempo.
vino di:

accedi alla sezione video
per prendere visione della struttura dell’azienda agricola, dei suoi spazi esterni, dei suoi meravigliosi panorami e degli appartamenti dell’agriturismo.


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